Disossati
Ben ritrovati su Altrimondi.
Ho accennato più volte – scusatemi l’insistenza un po’ senile – a come la categoria del Trash confini con quella del Cult… La quale, a ben vedere, è a sua volta limitrofa rispetto a quella della memoria personale, dell’intimo legame che ognuno di noi ha con prodotti dell’entertainment incontrati “in quel particolare momento” della vita…
Una canzone, un romanzo, un film… quel particolare attore, quella specifica battuta, o l’intuizione di quel saggista, che in un pomeriggio di pioggia ci ha illuminato la giornata… Persino un cartone animato. Piccole esperienze di piacere, o comunque d’emozione, che hanno inciso un solco specifico nei nostri centri cerebrali della memoria.
La pellicola di cui voglio parlarvi oggi (ovvero la particolare varietà di mostri “alieni” che in essa compare), è uno di questi singolari reperti. Non è certo un capolavoro, ma per me è stata, a modo suo, importante: una di quelle esche che, tanti anni fa, mi hanno attirato sul terreno del Fantastico…
Insieme al Tom Hanks di The Polar Express (2004) e al cast di Beowulf (2007) – tutti e due firmati da Robert Zemeckis – il grande Peter Cushing è stato uno dei pochissimi attori che abbiano recitato attraverso il proprio simulacro digitale. E forse, fatta eccezione per Carrie Fisher, il solo che l’abbia fatto dopo la morte. Badate bene: non parlo dei tantissimi avatar – alieni, scimmie, draghi e creature favolose assortite – dietro cui le star hollywoodiane si celano sempre più spesso, ma di una fedele (per quanto leggermente imperfetta) riproduzione dell’uomo reale, così com’era prima di congedarsi da questa valle di lacrime. Vederlo mentre si muove sulla scena di Rogue One di (Gareth Edwards, 2016) nei panni del governatore Tarkin di Star Wars… Be’, non solo ci riporta alla prima e unica volta in cui interpretò effettivamente quel personaggio (era il 1977), ma risveglia strane e indescrivibili emozioni. L’impressione, appunto, indescrivibile di essere cittadini di un mondo che sta completamente destrutturando le nozioni intuitive di spaziotempo, di storia e di immaginazione, di vita e di morte. Ma… lasciamo perdere i miei filosofismi e torniamo a Peter Cushing.
In realtà, così accennavo, più che di lui come uomo e come attore, vorrei parlare del film in cui feci la sua conoscenza – ahimè – molto tempo fa. Si può incontrare qualcuno in un film? Forse l’espressione non è delle più felici dal punto di vista della lingua italiana, ma rende l’idea: c’è una verde e ingenua età in cui assistere a una messinscena avventurosa e farne parte in prima persona sono più o meno esperienze equivalenti. Questa – per venire al dunque – è l’età in cui vidi per la prima volta Island of Terror, divertente fantahorror britannico girato dal super-veterano Terence Fisher nell’ormai lontano 1966 e giunto in Italia (tanto per cambiare) con l’inesplicabile titolo SOS - i mostri uccidono ancora. Mentre voi state lì a chiedervi perché mai i mostri debbano uccidere ancora (la prima volta non gli era bastata?), io vi racconto in due parole la trama. L’equipe scientifica del dottor Philips, con tanto di camice e provette, si è ritirata al riparo da occhi indiscreti su Petrie’s Island, un’immaginaria isoletta al largo delle coste irlandesi. I cervelloni stanno conducendo una ricerca d’importanza vitale per il futuro della medicina (si tratta niente meno che di “curare il cancro”), e sono ormai prossimi a mettere in atto il loro esperimento cruciale su alcune non meglio precisate “colture cellulari”. Fin qui, tutto ok. Di lì a poco, però, le cose prendono una piega sinistra: perso di vista il laboratorio, l’obiettivo della cinepresa ci porta lungo i sentieri nebbiosi dell’isola, dove assistiamo a un misterioso omicidio. La vittima – tale Ian Bellows – è attirata in una caverna da un suono che ricorda suppergiù la sirena di un antifurto e, quando il suo corpo viene rinvenuto, si presenta molle come un fico. È ridotto a un “sacco di carne”, completamente svuotato delle sue ossa.
A questo punto entra in scena il vecchio Cushing – qui nei panni dell’esimio patologo Brian Stanley, che – affiancato dallo scienziato-playboy David West (un Edward Judd, a dire il vero, alquanto imbolsito) e da Toni Merrill, la bella ereditiera a cui questi si accompagna (Carole Gray) – giunge sull’isola dietro accorata richiesta del medico locale, per investigare su quello che pare essere un nuovo, misterioso morbo capace di disintegrare l’apparato scheletrico. Vi risparmio i dettagli della loro avventura e vengo al sodo: a uccidere Bellows – al quale si aggiungerà una lunga lista di “disossati” – non è stato un improbabile virus, ma un’ancora più improbabile genìa di esseri viscidi e striscianti, creati inavvertitamente dagli esperimenti di Philips & soci. La via dell’inferno, al solito, è lastricata di buone intenzioni, e quelle dell’aspirante filantropo hanno finito col trasformarsi in un incubo dal quale lui e la sua squadra sono stati inevitabilmente inghiottiti. I Silicati – questo il nome che viene affibbiato alle bestiacce – risultano stranamente difficili da descrivere, forse proprio per via della loro semplicità: sono fatti più o meno come il carapace di una testuggine gigante, dal quale spunta un unico letale tentacolo a mo’ di testa, il che gli conferisce grossomodo l’aspetto di un vecchio elettrodomestico (tipo Bidone Aspiratutto, avete presente?). Benché si muovano sul terreno con la stessa velocità di un novantaquattrenne affetto da sciatalgia, questi esseri sono pericolosissimi e pressoché indistruttibili; afferrano la loro vittima per mezzo del suddetto tentacolo e ne risucchiano (con un raccapricciante gorgoglìo) l’ossatura dopo averla liquefatta con degli specifici enzimi. Il che – esperienza non troppo invidiabile – avviene mentre il malcapitato è perfettamente vivo e cosciente.
La spasmodica nerd-attenzione che appassionati dilettanti e storici professionisti riversano abitualmente sul fantacinema americano degli anni Cinquanta-Sessanta non ha – almeno nel nostro paese – colpito con altrettanta foga e meticolosa acribia la produzione britannica, che pure ne sarebbe stata meritevole. Reperire curiosità, aneddoti e immagini dal “dietro-le-quinte” di pellicole come Island of Terror è, di conseguenza, estremamente difficile anche con gli smisurati poteri che Internet ha conferito a noi mortali. “Mi commuovono la creatività artigianale dell’artista dimenticato e vilipeso, il tocco d’iconoclasta follia di chi osa remare controcorrente, la capacità di sfidare la mediocrità degli ingredienti per generare un ‘nuovo mondo di demoni e dei’”, ha scritto, con un pizzico d’enfasi, il giornalista Andrea Ferrari in apertura al suo prezioso volume Il cinema dei mostri (2003), ed è con questo spirito che ci rivolgiamo dunque ai misconosciuti protagonisti del film, W.T. Partleton, Michael Albrechtsen e John Earl, cioè i tecnici degli effetti speciali che concepirono e realizzarono il singolare design dei Silicati. Se personaggi come Jack Pierce (l’uomo che trasformò Boris Karloff nel mostro di Frankenstein) e persino Millicent Patrick (la donna che – in un universo altamente misogino – si affermò come ideatrice della Black Lagoon Creature) hanno ricevuto il plauso e l’ammirazione di generazioni di geek, intenti a recuperare filologicamente ogni dettaglio delle loro tecniche e procedure, non altrettanto può dirsi di Partleton, Albrechtsen ed Earl. Questi onesti artigiani sono celebrati nella storia del cinema più o meno come io lo sarò nella storia dell’erpetologia, suppongo. Il che (per loro) è decisamente un peccato.
Alla fine, i temibili Silicati verranno sconfitti grazie a una massiccia somministrazione di Stronzio-90, un isotopo radioattivo al quale, a quanto pare, sono allergici. Si tratta in effetti – sorvolando l’imbarazzante assonanza che il nome di questo elemento ha con una poco edificante espressione italiana – di una piccola raffinatezza che gli sceneggiatori Edward Mann e Al Ramsen infilarono di straforo nella loro opera. Di fatto, lo Stronzio-90 manifesta una forte affinità biochimica con il Calcio (l’ingrediente speciale di cui i mostri sono ghiotti) e, di conseguenza, tende a depositarsi nei tessuti ossei causando – ironia della sorte – tumori dell’apparato scheletrico. Gli orridi mostri di Petrie’s Island, nati, se così si può dire, per “curare il cancro”, proprio dal cancro saranno debellati.
Non è forse la sottilissima linea rossa che accomuna moltissime pellicole cinematografiche? A ben pensarci, spesso tutto parte proprio da qualche aspirante filantropo con buone intenzioni che finisce per scoperchiare il vaso di Pandora, procurando solamente catastrofi!
Anche se non è il tema principale dell'articolo, mi ha colpito molto la tua considerazione sulla capacità della modernità di destrutturare - e sovvertire - le nozioni intuitive di spaziotempo, di storia e di immaginazione, di vita e di morte. A me ciò rende particolarmente nervosa, è come se si fosse concretizzato il concetto terribile di the show must go on, non importa se qualcuno sia morto, se i tempi siano difficili o altro, il pubblico deve avere il suo spettacolo come previsto. Prima, se un attore improvvisamente passava all'altro mondo prima di terminare un film o una serie, semplicemente non si terminava, oppure si rimpiazzava con un altro che fosse fisicamente compatibile - mi ricordo ancora del trauma di vedere un Silente diverso, io che sono cresciuta con Harry Potter. Oggi lo si sostituisce con un fantoccio che illude che vita e morte siano concetti relativi...un po' troppo sovversivo persino per me che non amo le regole!
Sempre interessante leggerti! Grazie di aver condiviso
Cara @nawamy, come sempre grazie a te. Soprattutto per la capacità che sempre riconfermi di cogliere la centralità e la rilevanza di aspetti solo apparentemente secondari. Capisco il tuo disagio e da molti punti di vista lo condivido (rimanendo sul terreno dello spettacolo, io mi innervosisco anche quando semplicemente cambia il doppiatore di un attore :-)).D'altro canto, il tema investe più in generale il problema della realtà come struttura collettivamente costruita e condivisa - ovvero il modo in cui la viviamo attraverso i meccanismi della comunicazione. Oggi, la velocità con cui produciamo, acquisiamo, manipoliamo e quindi consumiamo contenuti di ogni genere considerandone quasi solo l'uso strumentale immediato, tende irresistibilmente a dissolvere il mondo in una nube di atomi tra loro incomunicanti, in un'esperienza priva del solo elemento che la rende "reale": l'interpretazione che ne possiamo dare. L'industria dell'entertainment - che in verità è sempre stata spietata con i suoi adepti - risponde a questa logica adattandosi ai tempi, ovvero dissolvendo letteralmente i propri protagonisti. A ben pensarci (ed è una provocazione che pongo anche a me stesso), non molto è cambiato, posto che tu e io, oggi, possiamo vedere Humphrey Bogart che recita pur sapendo che la sua esistenza si è conclusa molto tempo fa. Anche quello è - seppure in un modo diverso, certo - un "simulacro"... Probabilmente se fossimo nati prima della nascita del cinema, riterremmo questo fatto vagamente inquietante... :-)
Un abbraccio.
Ottima risposta!
Per quanto riguarda il doppiaggio, per me questo è diventato un tasto dolente. Da qualche anno cerco di guardare i film in lingua originale, ma riesco a capire qualcosa soltanto in italiano e in inglese. Mi sto impegnando con il francese ma la strada è ancora lunga! Bene, ho cominciato a schivare i contenuti doppiati, perché spendo la maggior parte del tempo osservando le labbra fuori sincrono degli attori e rimango con un certo senso di fastidio. Eppure, penso anche che alcuni doppiatori hanno fatto la storia o che alcuni attori sono praticamente indoppiabili (penso a Benigni). Quindi immagina il mio sdegno quando la voce cambia!
E a volte trovo buffo anche che nella finzione più totale, si scelga una voce per trasferire un certo carattere al personaggio, separando il parlato dalla fisicità (immagina George Clooney e Pannofino, ahah!)
Ad ogni modo, ti do pienamente ragione, se fossimo nati prima del cinema riterremmo tutto ciò una grande stregoneria. D'altra parte, già con la fotografia, in passato, si parlò di stregoneria in grado di rubare l'anima dei soggetti fotografati...chissà davvero cosa ne penserebbero gli uomini dell'ottocento !
Grazie della risposta!
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