CDUMDS. Capitolo 7 - Cronaca di un'ossessione
Casa di Luca, era situata in collina, immersa nel verde, in un paese adiacente al mio.
Ci eravamo dati appuntamento per la domenica pomeriggio alle tre. Ci saremmo conosciuti, ed avremmo provato quelle poche canzoni che mi aveva detto. Otto, per la precisione.
Trovai il posto abbastanza facilmente, mi sentirono arrivare col mio rumoroso "Si", e Luca venne ad accogliermi.
Ci presentammo ufficialmente, aveva due anni più di me, felice di incontrarmi. Mi invitò ad entrare, dopo pochissimi convenevoli.
La sala della musica, il salone di casa mia adibito a posto per suonare, al confronto di ciò che mi trovai davanti, era un posto ordinato.
Anche Luca infatti, si era appropriato del salone, e ne aveva fatto una sala prove.
Per sala prove, non intendo uno spazio acusticamente ideale pieno di piramidali, la pedana per la batteria, tante luci colorate e una risposta sonora accettabile. No.
La sala prove di Luca, era un vero e proprio salone, pieno di mobili da salone, e negli spazi liberi erano stati posizionati gli strumenti. Dove non c'era spazio, era stato fatto.
Entrando, si ergeva sulla parete di fronte una grande credenza, con i bicchieri del servizio buono in bella vista dietro gli sportelli di vetro lavorato. Appoggiato a questa, era stato posizionato il tavolo da pranzo, con sei sedie, ed era stato fatto posto alla batteria. Rossa.
Il mio sguardo, si soffermò a lungo su quella. Erano più di dieci anni che non ci stavo così vicino.
Solo la vista della batteria, riportò alla mente il mio primo amore, e mi elettrizzò.
Continuai a guardarmi intorno, curioso. Notai le casse, grandi come le mie, sui loro cavalletti, ai lati della credenza. Voltandomi pian piano, incrociai su un lato della stanza la tastiera di Luca, una Ketron X1, incredibilmente all'avanguardia nella sua postazione piena di cavi e cavalletti ingombranti, mentre lungo l'altra parete, in uno spazio al confronto minuscolo, prendevano posto in fila indiana un bassista, un chitarrista, e un violinista.
C’era anche un secondo chitarrista, che vagava un po’ disorientato, non trovando una postazione fissa, e infine io, che avrei preso posizione sul lato di Luca, con l’orecchio destro nei pressi di un piatto della batteria, e l’orecchio sinistro a due metri da una cassa.
Mi presentai, e tutti si presentarono a me, con un sincero sorriso sul volto. Fu un benvenuto sentito, condito da qualche scambio di informazioni di circostanza, nome, età, scuola, cose così. Per rompere il ghiaccio.
Abbastanza in imbarazzo, presi posto nel mio angoletto. Avevano tutti tra i quindici e i venti anni, erano sostanzialmente miei coetanei, anche se a diciotto anni, uno di quindici non lo prenderesti in considerazione, perché è un bambino, ma in quella stanza non faceva differenza.
Mi chiesero con quale pezzo avrei voluto iniziare.
Sentivo, attorno alla mia figura, una sensazione di importanza mai sentita prima.
Loro, erano settimane, forse mesi, che suonavano insieme, e il risultato delle loro prove non aveva mai avuto una voce. Per questo, la loro riverenza nei miei confronti, era lusinghiera.
Volevano avere il loro cantante, ed avrebbero fatto di tutto per farmi essere a mio agio.
Di contro io, che cantante lo sarei diventato da li a qualche minuto, e che prima di allora avevo cantato un’unica canzone da solo, avevo la famosa ansia da prestazione. Non avrei voluto deludere le loro aspettative, e soprattutto non avrei voluto fare una figuraccia, per una questione di orgoglio personale.
Scelsi Amore disperato. Originariamente cantata da Nada, era stata da poco riportata al successo da un gruppo di nome Super b. Era un pezzo molto famoso.
Il batterista, diede il quattro con le bacchette, e sancì l'inizio ufficiale della prova.
Ero abituato a suonare in gruppo, ad avere la divisione dei ruoli e delle parti. Calcolate che nella banda, la sezione ritmica (praticamente il batterista), la fanno tre persone diverse: una grancassa, un rullante e i piatti. Perciò mi aspettavo una esperienza di ascolto diversa dal solito.
Il mio orecchio, o se volete la mia educazione musicale, era abituato a concepire la musica leggera come qualcosa che aveva sempre lo stesso suono, la stessa durata, lo stesso tempo di esecuzione.
La base midi, infatti, era totalmente identica all’originale. Suonava allo stesso modo, con la stessa velocità, con lo stesso inizio e lo stesso finale. La canzone, era quella, anche se cantata da qualcun altro, era identica sul disco, sulla base, alla radio, e in televisione.
Invece, le prime note di quell’ amore disperato appena iniziato, erano tutta un'altra cosa. Totalmente diversa.
La batteria a due passi da me, le chitarre, la tastiera, il tutto a un volume globalmente esagerato, direzionato in modo casuale, con suoni diversi, tempi diversi e probabilmente accordi diversi.
Iniziai a cantare. E sbagliai l’ingresso, fuori tempo. Ottimo inizio.
Tutta quella tempesta di sensazioni, aveva ovattato la mia percezione del tempo. Soprattutto quella diversità di approccio al brano, simile all'originale, ma totalmente stravolta nell'interpretazione sonora, mi aveva spiazzato. Avrei dovuto prima capire.
Una canzone, tre minuti circa di musica messa in play da un telefonino qualsiasi, è il risultato di decine di ore di registrazione, e di decine di ore di regolazioni (post-produzione) per incasellare le frequenze nei loro spazi, ed ottenere la famosa armonia. L'ascolto risulterà dunque gradevole, ma grazie all' armonia e alla dinamica, si fissano i punti di riferimento del brano, ed è facile starne al passo.
Quando invece, ci si trova in sei esseri umani, più una gran quantità di strumenti, e di arredamento, in quindici metri quadrati, con la batteria che detiene il ruolo di strumento dal volume più basso, e un piatto di quest’ultima a dieci centimetri da un’orecchio, sembrerà incredibile, ma le possibilità che non si senta nient’altro sono elevate.
Ripartimmo, mi sarei affidato alla batteria, anche perché tutto il resto non lo sentivo.
Il primo tentativo, sbagliato, ci poteva stare, ero stato distratto da tanta novità ed emozione.
La portammo a casa tutta d’un fiato.
Alla fine del brano, la gioia che si respirava in quella sala da pranzo/prove, era talmente tangibile da essere masticabile in bocconi. Ognuno, aveva trovato il proprio tassello perduto, nel grande puzzle della rockband.
Luca, soprattutto, era entusiasta.
Era lui, il vero trascinatore di quella band. Positivo, propositivo, aveva messo a disposizione casa, strumenti, elettricità, tempo, e sembrava un bambino a cui hanno appena regalato il suo giocattolo preferito. Adorava la musica, aveva speso fior di quattrini per comprare la X1, il top sul mercato al momento, e viveva nel sogno di poter fare parte di una band.
Quel sogno, quel giorno, sembrava essersi concretizzato per tutti.
Provammo anche gli altri brani, gli altri sette brani che avevo studiato. E ad ogni nota, eravamo un pochino l’uno più parte dell’altro. Pochi minuti prima eravamo solo degli sconosciuti, ed ora ci stavamo fondendo in una cosa sola, goccia dopo goccia.
Era qualcosa di magico.
Non avrei mai pensato che la musica avrebbe potuto trasmettermi qualche tipo di sensazione positiva, invece aveva iniziato a farmi degli inaspettati regali. Proprio nel momento in cui sembrava che il mio rapporto con le sette note stesse finalmente giungendo ai titoli di coda.
Quel giorno, la band aveva conosciuto il proprio frontman, e io ero diventato un frontman.
Frontman sordo, perchè quando uscii da quel salone ero talmente rintronato, che mi ritrovai ad avere l'acufene fino al mattino dopo. Era il prezzo da pagare per il rock 'n' roll
Facemmo qualche altra prova, sempre la domenica pomeriggio, verso le tre. Quando avrei iniziato l’Università e mi sarei trasferito a Roma, sarebbe rimasto un giorno comodo.
Non ne facemmo molte a dire il vero, perché otto brani non richiedevano un'eternità per essere imparati, erano pochi.
E infatti fu una delle prime cose che chiesi: perchè solo otto?
Avevo fatto piano bar fino a quel momento, e un’esibizione musicale non era mai stata con meno di trenta brani. Nelle cerimonie si arrivava tranquillamente a cento, nelle interminabili ore di pranzo e post pranzo.
La risposta di Luca, alimentò a dismisura la mia eccitazione.
-“Faccio anche io le serate, suono la fisarmonica e spesso mi chiamano per qualche cerimonia”-
Eccolo dunque, un altro collega.
-“Ma con una band è diverso. Nelle serate di pianobar, sei un sottofondo. Una specie di juke-box costoso, che deve suonare cose noiose ed esaudire richieste, non interessa a nessuno chi è che le sta eseguendo.
Una band invece, è l’attrazione della serata. Un concerto non è un sottofondo, è un evento. La preparazione di un concerto è una specie di rituale, e lo stesso l’esecuzione.
Una band viene ascoltata, viene guardata, e viene giudicata.”-
Un punto di vista con un innegabile fascino. Del resto, mi trovavo li proprio perché a seguito di una esibizione avevo provato un piacere sconosciuto.
Esibirmi, o anche essere esibito se preferite, era la cosa che più mi stimolava.
Dovevamo uscire da quel salone prova, e verificare di essere all’altezza del nome band
Un momento, il nome! Non avevamo ancora un nome! Serviva un nome da rockstar, una cosa aggressiva.
Ci fu uno scambio di idee, io proposi “lux aurea” oppure “luxurya”. Mi piaceva come suonavano, e l’idea che davano. Scegliemmo “Luxurya” (Vladimir non c’era ancora, potrei chiedergli il copyright).
Ora ci serviva un live.
In verità, uno in programma ce l’avevamo già: avremmo presentato la nostra band al compleanno del violinista, che avrebbe organizzato per l’occasione una grande festa.
Ma, vista l'importanza dell'appuntamento, non potevamo certo arrivare impreparati. Ci serviva qualcosa per sciogliere il ghiaccio. Un battesimo del fuoco.
Trovammo facilmente l’occasione giusta: una festa di un Santo di terza categoria in una chiesetta minuscola.
Non sarei andato a fare una serata, sarei andato a fare un concerto!
Quando arrivammo alla chiesetta, trovammo il nostro “palco” allestito, ed era un tantino diverso da come ce lo aspettavamo. Al fianco del portone di ingresso, avevano messo una moquette beige di tre metri per tre, e una ciabatta per la corrente.
La luce, l'avrebbe fornita il lampione stradale nelle vicinanze, e il pubblico era composto da n. 2 vecchie con sedia.
Suonammo. Male, malissimo. Ma ci sentimmo come se stessimo suonando a Wembley, e nessuno avrebbe potuto testimoniare il contrario, se non le due vecchie. Ma chi avrebbe chiesto o creduto a due vecchie?
Eravamo pronti per suonare al compleanno del nostro violinista.
Grazie a un'estenuante ricerca di documenti rari o ritenuti perduti, di cavilli burocratici, di bustarelle, ricatti e delle nuove tecnologie, oggi sono addirittura in grado di mostrarvelo, per farvi immergere nell'esperienza come foste anche voi li, tra il pubblico.
Guardate, ascoltate, metabolizzate, e riflettete.
Nella prossima puntata, commenteremo insieme.
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Ci credi che sono riuscita a vedere il video solamente adesso?!?
Ho bisogno di tempo per metabolizzare e riflettere, hai ragione.
Amore disperato ha assunto tutto un’altro significato!
Anche io ho letto il post solo ora... Il racconto in sé mi è piaciuto tantissimo, ma cacchio... Il video è un cimelio. A parte che penso di aver perso un milione di neuroni per colpa delle luci, ma mi spieghi perché hai cantato in accappatoio? O era una vestaglia?
Sto lavorando al post delle spiegazioni, dove spiegherò anche quello! Cmq mi hai fatto morire di risate 😂 😂
Credo di aver sgamato almeno due cose:
Cosa ho vinto?
Acquissima.. Su tutti e due i punti