Ricordi, parole, frammenti di vite che ho vissuto o che avrei voluto vivere. Frammento n°2
Un altro stralcio dei miei ricordi di vita non mia.
Dal momento che possono risultare ostici, criptici, voglio aggiungere una chiave di lettura.
Spesso nella mia vita, mi fermo ad osservare le persone, e poi provo ad immedesimarmi nella loro mente, dopo aver raccolto una serie di informazioni riguardanti la vita privata. È così che nascono i miei frammenti.
L’ultima cosa che mi era rimasta da fare.
Tutto oramai era stato preso, tutto ormai era stato perso.
Ogni cosa dissipata nell’ infinito mare di rinunce che aveva imbrigliato il mio pensiero.
Atlante, il mondo sulle spalle, e la pseudo convinzione che alla sua morte il mondo sarebbe caduto.
Invece qualcun’ altro lo avrebbe sostituito: inutile convinzione di un atterrito morto parlante. Avvicinai l’auricolare al padiglione e incastrai la sua forma anatomica nel forame esterno della tuba: ben si adattava!
Meticolosamente avvicinai l’altro auricolare con su inciso “L”, all’altro padiglione auricolare. Sensazione di lieve prurito: intollerabile per me!
Capii in quel momento che il ventaglio delle scelte che pochi anni prima mi si ponevano avanti, ora scompariva miseramente sotto i colpi delle verità che per troppo tempo mi ero precluso di conoscere.
Guardavo fisso lo schermo del mio portatile, e lì vedevo tutti i miei sogni proiettati: nessuno me li avrebbe mai tolti. Mai si sarebbero realizzati. Era come se fossero fermi lì, come se esistessero solo in quel mondo di 15 pollici di diagonale e 1 cm di spessore. Appiattiti su uno schermo e intangibili per la loro complessità.
Avvicinai la mano, forse per sapere che cosa si provasse a toccarli; provai ad odorarli, ad assaggiare il loro sapore. Fermi, restavano lì, lontani da me, lontani dalla realtà.
Sapevo di aver scartato le mie possibilità di proposito, per poter piangere la mia sorte.
Sapevo che tutto ciò che era stato fatto, aveva in se il germe del fallimento.
Smisi di scrivere di un sol colpo. E alzai la mia vista verso il soffitto.
Fenditure rosee tagliavano l’ enorme velo bianco che copriva la mia testa. La luce passante per quelle fessure illuminava a strisce il mio volto. Iniziai ad ondeggiare con il capo, quasi provando a farmi accarezzare dal sole, come se questo avesse avuto le mani, come se avesse potuto farlo.
Tutto è finzione attorno a me, ogni cosa è menzogna.
Vivo e penso al giorno in cui tutto questo finirà, vivo e penso a quando potrò cambiare di nuovo ogni mio avvenimento, vivo e penso a come avrei potuto vivere davvero.
Ho chiesto, ho urlato, cercato aiuto in tutti i modi.
Mi è sempre stato detto che le cose si fanno con le proprie mani: “devi crescere figlio mio”.
Provai a crescere portando addosso il fardello dei miei pensieri deviati, la mia mente oscura che annichiliva la velleità di una vita sana e felice.
Il sole fuori, attorno a me, nubi di tempesta dentro il mio cuore che aggrediscono la mia anima.
Chiesi ancora aiuto, capii che bisognava parlare.
Dissi cose a molti, parlai tanto, forse troppo, fino a quando le mie parole iniziarono a perdere ogni valore e diventai solo il brusio di un fastidioso lamento.
Parole vane, parole vuote di consistenza e capaci solo di autolesionismo senza scalfire l’ animo di chi le ascolta.
Dov’è il mio nocchiere?
Nave persa senza rotta ne ricordo di quella ormai smarrita.
Persi la mia lucidità a favore della mia confusione.
Volevo la compagnia di persone per non restare solo. Da solo.
“Solamente la solitudine mi avrebbe reso solo” così bastava evitarla.
Scelsi di stare insieme con gli altri, di condividere con tutti i miei pensieri, i miei gesti, le mie finte battute, il mio umorismo che fidatamente custodiva la mia malinconia.
Un uomo è invalido non solo se non può estrinsecare i suoi atti fisici. La mia era una invalidità pervenuta dai limiti della mia gabbia mentale.
Prigioniero di quel carceriere che governava la mia mente fin da quando riuscii a percepire il mio intorno e tutto ciò che poteva nuocermi.
Iniziai a capire che se non avessi combattuto, mi avrebbero attaccato e allora provai a combattere come mi avevano insegnato a fare. Faceva male ancora di più a volte. Capii che chi combatte perde, ancora non sapevo che chi si difende ha già perso.
Decisi allora di difendermi, di erigere le mie difese, il riflesso più antico, quello che fisiologicamente meglio funziona: allontanarsi dall’ origine del dolore!