(Recensione) Zona Uno di Colson Whitehead

in #ita7 years ago

La quarta di copertina di Zona Uno è stata per settimane una mia personalissima versione del tiro alla fune.

Da una parte, tirava un autore che sta scalando rapidamente i vertici delle mie preferenze: di Colson Whitehead - dopo l’ottimo L’intuizionista, recensito qui - devo letto recentemente La nobile arte del bluff, un libro a metà fra saggio e autobiografia che mi ha riportato a quando mi dilettavo con il Texas Hold’em e - soprattutto - mi ha molto ricordato il David Foster Wallce di Una cosa divertente che non farò mai più. Se amate raise, fold e all-in e volete dedicarvi a un testo che mescola sapientemente letteratura, biografia, ironia a tratti malinconici ve lo consiglio senza dubbio alcuno.

All’altro capo delle fune c’era la sintesi della trama: se ci son due robe che mi annoiano in letteratura sono gli zombie (e le loro infinite variabili) e l’horror più in generale. Che fare? Cedere ad un autore che mi sta convincendo pagina dopo pagina o mollarla lì convinto che (altri) morti viventi non facessero per me? Ho dato fiducia a Whitehead e ho fatto bene.

Immagine priva di diritti di copyright

In Zona Uno, Whitehead immagina un mondo - e in particolare New York - devastato da una misteriosa pandemia che ha generato tre tipi di umani: gli Schel (immaginiamoli come gli zombie più classicamente detti), i Ritardatari (figure essenzialmente inoffensive ma da debellare che ripetono all’infinito l’ultimo gesto della loro vita consapevole) e naturalmente i sopravvissuti, tra i quali primeggia il protagonista, impegnato con squadre di ripulitura a liberare - palazzo dopo palazzo, isolato dopo isolato - la città.

E’ evidente che l’interesse di Whitehead non è quello - banaluccio, mi si consenta - di intrecciare l’ennesima storia di sopravvivenza fra i morti viventi: la sua è evidentemente una interpretazione sociale che trovo pungente e ben riuscita. Nelle figure dei Ritardatari, ad esempio, e nell’incomprensione delle loro azioni ripetitive riscontro un ritratto di figure che persistono nell’agire secondo i normali canoni di vita mentre il mondo intorno ad essi è drammaticamente cambiato. C’è persino un pizzico di poesia che il protagonista non tarda a cogliere: che cosa spinge quel Ritardatario a compiere eternamente quel gesto? Quanto è intrecciato con la sua biografia? In queste domande, che ci poniamo quotidianamente cercando di capire cosa spinge l’Altro, risiede gran parte del fascino del romanzo.

Non va trascurato che Whitehead scrive davvero bene (e sia lode anche alla traduttrice Paola Brusasco): una delle punte di una generazione che sta riscrivendo la moderna letteratura statunitense, con un occhio sempre ben piantato in un presente così contraddittorio ed uno sguardo che non sfugge al futuro, alle paure che genera e alle speranze che può sollecitare.

Se non ci avete mai messo le pupille sopra, segnatevelo: Colson Whitehead continuerà a raccontarci gli States e il mondo generosamente, con originalità e scorrevolezza.

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