La Carta Capuana
La Carta Capuana
(Immagine creata da me)
La prima volta che incontrai 'la Carta Capuana,' ero in terzo superiore, la mia professoressa d'italiano la presentò come una delle prime testimonianze scritte in lingua volgare di letteratura italiana, insieme all'“Indovinello Veronese” ed all'“Iscrizione di San Clemente.”
In poche parole, in essa si poteva intravedere il processo di traslitterazione che dal latino volgare avrebbe portato alla nascita della nostra amata lingua.
Essa fa parte dei “Placiti Campani," delle sentenze emanate da autorità giudiziali, che riportano per la prima volta una testimonianza scritta in lingua volgare all'interno di documenti latini degli anni 960-963. Sostanzialmente ci informano di controversie avvenute tra ecclesiastici e privati per il possesso di terre.
La testimonianza più antica, del 960, emessa a Capua (da cui la carta prende il nome), vede un privato di nome Rodelgrimo che chiede al giudice Arechisi di riavere indietro le sue terre lasciate in possesso al monastero benedettino di Montecassino.
Tuttavia, i monaci benedettini chiamano in loro soccorso dei testimoni che confermano il possesso trentennale delle terre, e dunque l'acquisto per usucapione della proprietà.
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Dunque il signor Rodelgrimo ha promosso un “azione di rivendicazione” della proprietà, ovvero ha chiesto al giudice di rivendicare la cosa da chiunque la possedesse o detenesse (Art.948 C.C.).
Insomma voleva riavere indietro quelle terre che, forse per beneficenza, aveva lasciato in custodia ai monaci, si suppone per poterle coltivare così da sfamare il monastero ed i bisognosi.
Il problema reale sorge nel momento in cui i testimoni affermano che il possesso di queste si è protratto per un lasso di tempo pari a trent'anni.
Ed il fatto che questi ne abbiano avuto la materiale disponibilità per tutti questi anni, senza essere disturbati dal proprietario sbadato che per dimenticanza o menefreghismo non si era mai fatto sentire prima, fa loro acquistare di diritto la proprietà della terra per “Usucapione”.
Infatti, l'articolo 1158 del Codice Civile ci dona proprio la definizione giuridica di questo modo di acquisto della proprietà a titolo originario: “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per vent'anni.”
Il nostro codice civile giustifica la presenza di questo modo di acquisto della proprietà ponendolo sotto un punto di vista economico-produttivo per la società, ovvero basandosi sul fatto che lasciare in stato di abbandono una terra coltivabile o edificabile, senza che se ne ricavino frutti, pone il problema del limitare in un certo senso il fluire dell'economia interna del paese. Sotto una logica commerciale infatti chi ad esempio ha un orto, investe nell'acquistare prodotti per svolgere al meglio la sua attività, dunque compra i prodotti rintracciabili nel mercato interno del suo paese, per poi rivendere a sua volta ciò che ricava dal suo investimento, gli ortaggi.
In questo modo se qualcuno lascia la sua terra in custodia o detenzione a qualcuno per più di vent'anni, in maniera continuata, e questo qualcuno si rende utile per la società, la legge è più propensa ad accettare che lui abbia pieno diritto su di questa, e dunque ne acquisti la propretà.
Senza dubbio i monaci disponevano di ottimi consiglieri ecclesiastici che avevano studiato il diritto canonico, saldato nella tradizione giuridica romana lasciata dal “Corpus Iuris Civilis” di Giustiniano I.
E sicuramente questi avranno detto loro di promuovere una “domanda riconvenzionale” nei confronti del signor Rodelgrimo, in risposta del suo “atto di rivendica.”
La suddetta richiesta si basa essenzialmente sul porre domande all'attore (in questo caso, colui che sosteneva di essere il legittimo proprietario delle terre,) disponendo però delle giuste prove da presentare al giudice.
In poche parole, dimostrando il possesso di trent'anni delle terre al giudice, questo ha confermato ed accettato il loro acquisto per usucapione delle terre, facendole diventare così di proprietà piena del monastero benedettino di Montecassino.
La cosa curiosa di tutto ciò, però, sta nel fatto che alcuni studiosi pensano che queste testimonianze fossero false, perché emesse con precise formule giuridiche che un normale analfabeta della zona non avrebbe mai utilizzato nel linguaggio comune. Dopotutto dobbiamo osservare che il tipo di “volgare” parlato aveva anch'esso vari livelli linguistici, e che dei contadini dell'epoca, o semplicemente cittadini della zona, non avrebbero mai potuto padroneggiare quel tipo di linguaggio giuridico. Di conseguenza si immagina che la Chiesa abbia fatto qualche mafagna per poter continuare a possedere quelle terre, e che il povero signor Rodelgrimo non abbia avuto scampo.
Inoltre vi è da sottolineare che fino a quel momento non vi erano stati precedenti di trascrizioni di negozi o atti in volgare, perché il latino era la lingua ufficiale di questi. Dunque la tradizione romanistica era ancora molto ancorata nella mente dei giuristi dell'epoca, che utilizzavano per atti ufficiali e riconosciuti solo ed esclusivamente la lingua latina.
Questo è uno dei motivi per cui si presuppone che in precedenza usassero tradurre dal volgare al latino per ufficializzare i processi scritti.
Ma, successivamente, la necessità di riportare letteralmente la testimonianza nella lingua parlata dal testimone divenne essenziale per l'accuratezza dei fatti, e la traduzione avrebbe solo portato ulteriori problemi di espressioni che il latino non avrebbe potuto definire a pieno.